Associazione Bichi Reina Leopardi Dittajuti

FILIPPO MARIA GIOCHI - ALESSANDRO MORDENTI

Cocchieri, carrozze e cavalli nell'Ancona dell'Ancien Regime

 

Indispensabili nella vita e nel costume delle famiglie preminenti della città sono indubbiamente i servizi collegati al mezzi di locomozione cioè carrozze e cavalli, ai quali è particolarmente preposto il cocchiere, con i suoi aiutanti e sottoposti. Di rutti i servizi della casa gentilizia è forse questo i! più rappresentativo in quanto per sua natura rivolto ai rapporti pubblici e all'appariscente pompa voluta dai tempi. In effetti, carrozze e destrieri rappresentano un vero e proprio status symbol sia della ricchezza sia dell'influenza e peso sociale dei proprietari.
Nell'insieme della servitù, il cocchiere ha certamente una sua fisionomia accentuata da spiccate caratteristiche, spesso non tanto esclusivamente legate alla sua abilità professionale quanto piuttosto ad un peculiare conregno di arrogante spavalderia e talvolta di sfrontata temerarietà. Su tale atteggiamento influiva senz'altro il sentirsi al centro di ogni attenzione nell'apparire in pubblico e anche la presunzione di essere il diretto interprete della competitivita e dell'esasperato senso di emulazione esistente, specie nel '600, tra le casate.
Di tale psicologia di una aliquota ristretta e pertanto privilegiata, almeno sorto il profilo gratificante dello sfuggire all'oscuro anonimato dei colleghi impiegati nei servizi interni delle residenze, si mostrano avvertiti anche gli scrittori contemporanei. Così infatti, alludendo alla livrea dei cocchieri, si esprime l'Adami di Arcevia, nel suo trattato seicentesco sulle mansioni del maestro di casa, il maggiordomo, stigmatizzando che tali dipendenti non abbiano cari se non i propri interessi "senza haver riguardo alla roba delli padroni, che per vincere una precedenza ... non si curano di rumare e di mandare in pezzi una carrozza; si anco quando non vanno a lor modo li cavalli, si mettono senza un rispetto a batterli con un bastone con fargli pigliare qualche vitio, overo gli stroppiano, che molto meglio sarebbe di batter loro, acciò diventassero piacevoli in trattar bene li cavalli". Il discorso aspramente critico si conclude con il consiglio di usare le percosse nei riguardi dei cocchieri, come si fa con gli alberi di noce, "quae non dant sine verbere fructus".
Queste parole rispecchiano già sufficientemente l'antagonismo esistente fra i maestri di casa e il personale di scuderia, riottoso, anche perché enucleato, come si vedrà, dagli appartamenti e in fondo più libero dagli obblighi del cerimoniale domestico, a sottostare a compitezze e discipline.

Il carattere violento e temerario dei cocchieri risulta dalle non poche ordinanze emanate dall'autorità pubblica anconitana, che si susseguono ripetutamente, mediante le quali si tenta di correggere in ogni modo i loro eccessi.
Ancora nel secolo XVIII, precisamente nel 1712, il governatore di Ancona Nicola Maria Lercari, in un suo editto, rispecchia l'effettiva situazione mediante una serie di precisazioni che consentono uno spaccato realistico dei fatti che quotidianamente avvengono nelle strade della città. Causa degli incidenti lamentati non sono però esclusivamente Ì cocchieri, ma anche le dame che, "a solo morivo dei loro propri) capricci, e senza riflessione e considerazione a gl'inconvenienti che potevano succedere fra gentiluomini padroni di dette carrozze", spingono i guidatori a gare inconsulte e pericolose, tanto più per gli ignari passanti. Anche nella cronaca minore risultano continue risse, se non addirittura fatti odi sangue, causati dalla prepotenza dei postiglioni. Così l'annalista Pasquale Bedetti, che cita spesso il protervo emergere nella fama popolare di questi violenti, riferisce tra l'altro uno specifico tragico epilogo di rivalità tra cocchieri di note famiglie anconitane; "14 ottobre 1773. Fu ammazzato il cocchiere del Bonda sulle scale di San Francesco dal cocchiere del conte Antonio Ferretti, che fu poi riconosciuto e carcerato il delinquente al Porto di Recanati". Circa la smania di soverchiarsi a vicenda per primeggiare come guidatori, è sempre il Bedetri a riportare un curioso accidente occorso nell'occasione del passaggio per Piano San Lazzaro degli equipaggi che recavano a Loreto le zie del rè di Francia, Luigi XVI, fuggiasche dalla Parigi rivoluzionaria, appunto dirette al santuario per impetrare la salvezza del monarca loro nipote e della consorte Maria Anconietta. Tutta l'aristocrazia anconitana in corpo e deputazione, con a capo l'Anziano Nembrini, si era assiepata a porgere gli omaggi ed a prendere parte all'eccezionale avvenimento. Al momento però della partenza della carrozza con a bordo le principesse reali, i cavalli che trainavano il pesante veicolo, nell'abbordare la ripida salita delle Grazie, cominciano a recalcitrare e ad imbizzarrirsi. Il cocchiere Giuseppe Gaggiorro, di casa Ferretti del Pozzolongo, si crede in dovere di mostrare la sua abilità, saltando in groppa a uno dei cavalli della pariglia di testa. Male gliene incoglie giacché, con una sgroppata, viene proiettato pesantemente al suolo, rimanendo storpiato. "Dopo guarito - così icasticamente commenta il Bederri - il padrone lo giubilò".

Il personale addetto alla cura dei cavalli aveva inoltre alloggi riservati all'interno del complesso edilizio della residenza nobiliare o pubblica. Infatti, a partire dal '500 sino a tutto il '700, l'abitazione del cocchiere risulta immancabilmente situata nelle immediate adiacenze della scuderia. Ciò a seguito di un particolare ed atipico rapporto di lavoro che si differenzia totalmente dall'usuale contrario regolante le prestazioni della restante servitù.
Il cocchiere, infatti, non usufruisce della tavola comune ai servitori e pertanto deve provvedere a far cucina a parte, con i propri mezzi. Nel compenso annuo somministrato dal padrone, vengono comprese, altresì, le spese di manutenzione per Ì veicoli da trasporto che sono a carico dello stesso cocchiere; forse per un motivato tentativo di cautelarsi, rendendolo responsabile, da una scriteriata noncuranza nell'uso. Vero è pure che la prontezza dei necessari interventi per le eventuali riparazioni non poteva avvenire se non da pane di colui che, in pratica, viveva a continuo contatto dei veicoli e dei loro accessori.
Su particolari dislocazioni di scuderie e rimesse in rapporto a dimore genti-lizie anconitane, è assai interessante quella del palazzo Bosdari, che ancora oggi è rimasta Ìntegra nella sua primitiva struttura: esempio di rispettoso e intelligente restauro. Questo edificio, costruito sulla via del Comune ma con le fondamenta sulla sottostante piazza S. Maria, aveva le scuderie sistemate a tale livello. Tramite una scala a larghe volute ed ampie gradinate, atta quindi ad essere percorsa comodamente sia in discesa che in salita dai cavalli, questi erano condotti al piano superiore, e precisamente nell'androne, comunicante con la via del Comune, per essere attaccati.
Eguale sistemazione aveva il palazzo Bourbon de! Monte, situato all'inizio di via del Comune, subito dopo l'arco della Prefettura, ed ora scomparso.
Un altro palazzo cinquecentesco, quello Nappi e poi Palunci, situato nella via del Porto e oggi non più esistente, offriva una classica tipologia a proposito di -scuderie e servizi annessi. Nel complesso dei locali formanti la imponente struttura architettonica del palazzo, la scuderia, la selleria e gli ambienti riservati al personale addetto avevano infatti sistemazione separata, al piano terra dell'edificio- La rimessa delle carrozze, e quella più angusta per le portantine, erano invece dislocate in una apposita costruzione a sé stante che sorgeva sullo spiazzo detto Panunzio, di fronte quindi al portone dell'ingresso principale.

Nella struttura del fabbricato, tré erano i cortili di sua pertinenza, uno principale e due altri indicati negli inventar! come, rispettivamente, "cortiletto della scuderia" e "corriletto", comunicanti tra loro con un volro, il cosidetto "passetto", e, riguardo alla seconda corte, con uscita diretta sulla via
del Porto. Quello della scuderia era il più arretrato ed i cavalli, per essere attaccati, dovevano quindi raggiungere la seconda corte per il passetto e di li, immettendosi direttamente sulla pubblica via, arrivare all'antistante spiazzo Panunzio dove erano le rimesse per gli equipaggi.
Oltre alla scuderia, era proprio su queste minuscole corti che si accentravano anche tutti i servizi ad essa inerenti: l'abitazione del cocchiere, soprastante Ì locali delle stalle e con questi in comunicazione mercé un'apposita scaletta interna; la selleria, ossia il locale in cui venivano conservati i finimenti e le selle; la "pagliara" o fienile, anche essa in diretta comunicazione con il cortile tramite altra scala di venti gradini. Nel mezzo della corre vi era un pozzo con relativo ciscernino per l'abbeverata. Si noti l'estrema razionalità della disposizione di questi particolari servizi nell'assetto dell'edificio: accentrati tutti nei cortili minori, con comunicazione interna e con propria uscita di disimpegno sulla corte, anche se strettamente collegati per utilità di lavoro, rispettivamente indipendenti.
Riguardo al personale di stalla, è da tener presente la necessaria e contìnua vigilanza ai cavalli da espletarsi anche in ore notturne e da qui l'esigenza di una diretta connessione tra locali riservati al servizio e quelli appunto formanti la scuderia. Negli inventari dei Palunci si trova sempre citato un giaciglio per il garzone, situato accanto agli animali: "... un letto consistente in un solo pagliaccio...". Il cocchiere invece dormiva al piano superiore e, per la sua posizione, aveva un giaciglio certamente più comodo, vale a dire "un letto consistente in quattro tavole, due treppiedi, pagliaccio, materasso, capezzale". Nessun'altra notizia risulta riguardo ad altri mobili di sua spettanza, tanto che si sarebbe indotti a ritenere che, per il restante, fosse il cocchiere stesso a provvedere con la propria mobilia.

Analoga disposizione di ambienti mostra anche, tra '600 e '700, il palazzo in Piazza grande (oggi del Plebiscito), prima anzianale e poi del governatore pontifìcio. La scuderia si apre sul cortile interno, ha due porre d'accesso, munite di apposita persiana per arieggiare l'ambiente. L'interno è descritto munito di "... greppia, di posti otto con quattro mangiatoie da biada, una lunga rastrelliera, otto colonne ed altrettanti battifianchi con catene di ferro". Altri "sei posti" sono in una stalla adiacente. La "pagliara", dove si conservano il fieno e la paglia, era situata al di sopra della stalla e con apposita botola ("barbera") comunicava col locale sottostante, consentendo così un comodo sistema per calarvi direttamente le biade. Per mezzo di una scaletta, dalla "pagliara" si accedeva direttamente alla camera del cocchiere per la quale l'inventario fiscale da conto persino delle mobilie: "un letto incassato con paglione, materazzo, capezzale" e inoltre un canterano con tré cassetti, due tavolini e tré sedie. La stanza è munita di camino e di lavamano e, particolare interessante, di un campanello a molla, evidentemente usato per collegamento con la stalla. Anche in questo caso l'abbeveratoio per i cavalli è al centro del cortile ed è addirittura "inciso in marmo".
Nel settecentesco palazzo Trionfi, la prassi viene mantenuta, nella struttura di cortili e pianterreni adibiti genericamente a servizi, con la sovrastante abitazione del cocchiere che, peraltro, in questo caso, risulta essere un vero e proprio "quartiere". Invece, nella ristrutturazione di Palazzo Ferretti al Guasco e sue pertinenze, effettuata con evidente connessione ai modelli e criteri architettonici della dimora nobiliare, concepita secondo gli schemi aulici del secolo XVIII, la scuderia, con relativi alloggi di servizio, viene staccata dal nucleo originale e sistemata in una delle coreografìe he palazzine realizzate proprio di fronte alla facciata principale del palazzo stesso . Questo insieme correlato di fabbricati, usuale nell'architettura di altre regioni, è invece difficilmente realizzabile in Ancona, per carenza di spazi liberi ancora progettabili nel '700 e per Ì dislivelli che caratterizzano l'andamento urbanistico della città antica; si nota in modo significativo, invece, nelle progettazioni di alcune residenze di campagna del suburbio e del circondario. Sono infatti ascrivibili a questo assetto, ad esempio, tanto le pertinenze della Villa Maialesca Ferretti agli Orti quanto la villa Montegallo verso Offagna, la Villa Montedomini presso Castelferretti e la Villa Colte Ameno dei conti Camerata alle pendici del Barcaglione.
Come si è visto, tra i compiti affidati al cocchiere ed ai suoi aiutanti, vi era anche quello di attendere alla manutenzione delle carrozze e degli altri mezzi di trasporto.

Che le carrozze esistessero e circolassero in Ancona sin dal '500 è provato dal preciso accenno che ad esse dedica il capitano Francesco Ferretti nella serie di dialoghi nei quali rappresenta svariati aspetti della città nel suo secolo.
Egli infatti, nel descrivere le feste del Carnevale anconetano, parla dei musicanti che allietano con i loro strumenti le maschere festanti per le vie cittadione "dentro ornatissimi cocchi e ricche carrozze''. Con il termine di "cocchio" pare si voglia alludere a quei particolari carri allegorici costruiti appositamente per il Carnevale, di cui ancora si conserva la tradizione. La citazione invece riguardante le carrozze è di per se stessa assai indicativa della presenza di tale veicolo nel corso del XVI secolo. Anche in Ancona, dunque, vigeva l'uso, da parte delle famiglie gentilizie locali, di mettere a disposizione le proprie carrozze per movimentare ed arricchire ancor più il vivace insieme delle feste carnevalizie. uso questo assai praticato nei centri principali italiani, quali ad esempio Napoli, Roma, Firenze, Bologna e Milano.
Certamente però, almeno a basarsi sugli inventar! di patrimoni privati, le carrozze non dovevano essere molto diffuse, ma riservate soltanto ad alcune delle famiglie più abbienti della città, nella prima metà del secolo XVI, stando a quanto è riportato nel memoriale settecentesco relativo alla visita effettuata a Loreto nel 1535 dalle Clarisse del monastero di Santa Maria Nova.
Viene infatti specificato: "... La mattina, che fu il primo d'agosto, vennero al monastero nostro di S. Maria Nova, ove trovarono le monache preparate... e le fecero montare ed ascendere in certe barelle, poiché all'hora non erano in uso le carrozze, e copertale con certe tele, se ne andarono con quella compagnia fin alla Santa Casa di Loreto...". Il termine "barelle" intende significare le "lettighe", trasportate in genere da muli, e che erano, a tutto il '500, il mezzo più diffuso in Europa.
A partire invece dal '600, non soltanto la carrozza diviene sempre più frequente, ma le notizie in proposito consentono, altresì, di fissare con certezza i vari tipi e modelli più in voga. Tra questi, l'esemplare più prestigioso adibito anche per le pubbliche cerimonie è il così detto "forlone" o "frullone", meglio conosciuto come "carrozza palatina". Si trattava di un veicolo di mole assai grande, capace di contenere all'interno anche sei persone, caratterizzato dalle sospensioni ottenute mediante spesse cinghie in cuoio assai robuste che, sostenendo la cassa, erano ancorate al telaio del carro mediante supporti in ferro, piazzati anteriormente e posteriormente.
II carro e la cassa, in genere, erano dipinti in rosso o in verde e la parte superiore esterna in nero. Le stoffe usate per foderare l'interno erano damasco o seta richiamanti il colore della verniciatura esterna.

Dietro la serpa del cocchiere, in luogo apposito, stavano Ì lacchè, addetti al servizio degli sportelli, ad aiutare a salire e scendere i passeggeri, specie le dame dalle ingombranti vesti. Comunque tale manovra era facilitata dagli appositi predellini ribaltabili che consentivano più facile accesso al veicolo stesso, la cui cassa si trovava ad una certa altezza dai piano stradale. Di tali veicoli, tra l'altro, si ha notizia nella descrizione della rimessa della famiglia Palunci, in cui si custodiva appunto "una carrozza a forlone verde con bandinelle di panno e damasco verde...".
oL'accenno alle "bandinelle", ossia alle tendine, conferma che ancora non si usavano, nell'arco del secolo XVII, finestrini dotati di vetri.
Consuetudine gentile era quella di dare un proprio appellativo ad ogni equipaggio e il conce Giuseppe Ferretti, destinando la propria carrozza alla moglie, così specifica nel testamento da lui vergato nel giugno del 1668: "...lascio alla sopra detta sig. Giovanna Tommasi mia consorte in ragion di legato... una mia carrozza, cioè la Nova, foderata di veluco a pelo cremise, con sue bandinelle di damascho cremise e con di dentro la sua arme indorata e per di fuori coperta di vacchetta nera et sue bollette e tibie di ottone e suoi fiocchi cremisi... e con tutti li finimenti e cavalli...".
Nello stesso senso concorrono altre fonti, come nell'esempio, questa volta desumibile da carte della famiglia Ferretti di San Domenico, dell'anno 1697, quando viene così indicata una carrozza esistente in rimessa: "... Rosina coperta di vacchetta con bottoncini neri e bandinelle di panno e damasco...". Comunque la tipologia della carrozza seicentesca, in uso naturalmente anche nella società anconitana, è quella del classico veicolo solido ma assai pesante le cui doti di robustezza compensano l'inconveniente del notevole ingombro nonché della necessità di fornire un commisurato numero di animali per il traino. Infatti l'alta percentuale dei tiri a quattro e a sei, in possesso delle famiglie nobili anconitane nel '600 e '700, può ritenersi determinata da un precipuo concorrere di cause. Vale a dire che la pesantezza dei veicoli, sovraccarichi di strutture decorative e di ferrature, e la viabilità cittadina, caratterizzata in gran parte da non indifferenti dislivelli fper non parlare della campagna anconitana ove, tolta la pianura della Baraccola, altro non è che un susseguirsi di strade che si inerpicano sulle colline circostanti), rendevano necessari per il traino della carrozza stessa un numero di cavalli superiore al normale. Si pensi soltanto a quella che era l'entrata della città prima della costruzione del quartiere Archi e della Porta Pia, alta fine del '700, da Capodimonte, seguendo una ripida discesa, fino alla chiesa di S. Agostino. Per la salita si distaccavano i cavalli, si aggiogavano i buoi sempre pronti a tale scopo e si pagava il pedaggio. Già nel 1606 il tiro a quattro era di uso normale, come descrive il Bizoni in un suo diario di viaggio: "... Verso le ventidue ore gionsimo in Ancona, dove entrammo per la Porta del Calamo... Arrivati in Palazzo, allora monsignor Marino, governatore, entrava in carrozza a quattro cavalli, col signor Francesco Trionfi e il cardinal Ferretti per venirci a trovare ...".
L'affermarsi della carrozza, nel '600, non è però esclusivamente legato alle odotazioni delle famiglie gentilizie locali.

Esiste certamente un'attività di vettura, per persone e relativi bagagli, gestita da privati, nella disciplina generale delle stazioni di posca, cioè di un regolare servizio pubblico che ormai diviene indispensabile. Partenze ed arrivi si susseguono con ritmo costante, secondo un ben preordinato sistema di orari, disciplinati da norme e regolamenti.
Esistevano dunque noleggiacori privati, almeno sin dal 1616, e addirittura si costituiscono in questo torno d'anni società create a tale precipuo scopo.
Cosi un oste, tale Andrea Gallo, e un "carrozziero", Pandolfo Catatini, fanno "spontaneamente compagnia tra di loro" per organizzare nel modo migliore un servizio, conferendo cavalli, carrozze, finimenti in un dettagliato rapporto reciproco di obblighi e prestazioni'.
Nel secolo XVIII, con l'invenzione delle sospensioni a molle, la carrozza, oltre a divenire naturalmente più confortevole, acquista sempre più particolari doti di eleganza e di comodità per i viaggiatori. Il modello più diffuso in Ancona è la cosi detta "tedeschina", che in pratica è la berlina, a quattro o sei cristalli" . Conseguente all'imperante lusso, che nel secolo diviene regola generale di tutte le manifestazioni della vita da parte delle classi egemoni, anche in Ancona si ha un gran numero di carrozze estremamente fastose ed eleganti, SÌ ritiene, a migliore illustrazione del nuovo gusto, che si sposa alle tecniche progredite, di recepire da una descrizione dell'epoca l'esemplificazione più calzante del modello cui si è fatto cenno. E questa una vettura di proprietà del cavaliere Corrado Ferretti, appositamente commissionata a costruttori romani, nel 1772: "Rimessa grande. Una tedeschina nobile con cassa tutta dorata e pitturata col suo carro verniciato cren-lise e con intagli tutti dorati, la chiodatura tutta di metallo dorato, o sia cornicione. Foderata la cassa di velluto blu con due cuscini simili guarniti di frangie e passamani di sera simile: il copritore del cocchiere guarnito simile: cristalli n. 3 tutti sani e quattro bandinelle di seta simile di colore colla sua frangetta: tutto il rimanente di ventole, cignoni e cignoncini di corame negro trapuntato bianco in ottimo stato: con centura di seta turchina dietro per uso de' servitori e finalmente sua copertina di loganella rossa per coprire tutto il carro e tedeschina suddetta, stimata scudi 420".
A questo veicolo di gala fanno seguito altre carrozze di normale impiego ma non per questo meno lussuose, quanto a rifiniture ed eleganza di particolari.

Si nota infatti, nella stessa descrizione patrimoniale che si è utilizzata, un'altra tedeschina di colore verde con filettature in oro; verde anche l'interno in velluto controtagliato e le tendine in seta. La copertura da rimessa è in tela gialla e la valutazione complessiva ammonta a scudi L30.
Altro equipaggio, ma di più imponenti dimensioni, usato certamente per spostamenti dell'intera famiglia, era il landò ("landao" nell'inventario) a quattro cristalli e con "straponrini" applicati agli sportelli. Nella rimessa del cavalier Corrado ve ne erano due, il primo dei quali era verniciato in rosso con cassa dipinta, guarnizioni in ottone ed interno in seta gialla. Il secondo, più di apparato, di colore cremisi, cassa dipinta e dorata, cuscini di felpa gialla e tré bandinelle, ovvero tendine, in seta verde.
Una tedeschina di escrema eleganza è quella di proprietà della famiglia Ferretti al Guasco, addirittura decorata con laccature veneziane del tipo a "chinoiseries": "una tedeschina verniciata color cremise con cassa dipinta alla chinese dorata con suo cornicione parimenti dorato, foderata di bavella e filo color giallo, con sua guarnizione di cristalli...". Altrettanto fastosa è la berlina, appositamente fatta approntare unitamente a un calesse del tipo "svimer" in Roma per le nozze del marchese Sperello Mancinforte Sperelli con Cassandra d'Aste. La descrizione minuziosa di tutte le spese relative a tale fornituracostituisce un prezioso documento sulle modalità e i particolari tanto inerenti alla costruzione quanto alla decorazione.
Nel 1774, anno della morte del magnare Francesco Trionfi, proprietario dovizioso anche sotto il profilo dei beni dei quali si tratta, nelle rimesse deL suo palazzo, erano presenti tra carrozze e calessi ben 12 unità, annotate particolarmente nell'inventario compilato dal notaio Ricci.
Alcuni degli esemplari descritti escono dalla normale tipologia già esemplificata: una berlina di grossa mole "con sette cristalli" denominata "berlina antica alla milanese" che fa pensare a un modello di gaia o gran cerimonia, della prima metà del secolo anche per i colori predominanti della cassa, che risulta dorata e filettata in rosso, e della tappezzeria interna interamente in velluto paonazzo; una "papalinetta da viaggio" verde, il cui carro però proviene da altra carrozza; una "ventolina", presumibilmente una carrozza leggera tipo "cabriolè".

Sempre nell'invencario Trionfi, una berlina da viaggio è cosi descritta: "una tedesca da viaggio con carro verde e cassa simile filettata a oro foderata di marocchino rosso e nel cielo di damasco con guarnizioni e bandinelle di seta gialla, con 3 cristalli, vasi e chiodi e con suoi fanali e serpa per il cocchiere...", In viaggio, per difendersi dalla polvere delle strade, anziché l'imbottitura di seta o di velluto, si preferiva infatti il cuoio, più agevole da battere e spolverare. Un altro veicolo incuriosisce per l'atipica struttura. Si tratta in pratica di un"carro da buovi a due ruote", evidentemente il classico biroccio marchigiano ma in questo caso utilizzato come carrozza, in quanto reca, fissata sopra, una "cassa foderata di vacchetta rossa con il cielo foderato di bavellina verde" e all'esterno interamente ricoperta di cuoio. Questa immagine complessiva richiama l'uso consueto, da parte anche degli appartenenti ai ceti più elevati, di servirsi per Ì loro spostamenti, particolarmente nella "villeggiatura", del classico biroccio dei contadini, consigliato o imposto talvolta dallo stato delle strade. Indubbiamente, la soluzione escogitata per il marchese Trionfi accomuna la praticità di tale umile veicolo senza nulla sacrificare all'aulica solennità dovutagli.
Al contrario, più modestamente, si apprende dalle "Lodi della villeggiatura all'Angelo" dovute alla penna di Antonio Mondani; sotto il nome di Namindio'6, ospite dei Ferretti, come questi, con nobile compagnia, si recasse da Varano ad Osimo su di un semplice biroccio, incorrendo peraltro in disavventure:

"Fu di bovi una quadriga, che faceva il cuor languire
l'equipaggio celeberrimo con cui andammo, e basti il dire
che quand'era tutta in fuga correa men d'una pizzuga...
Al bell'Osimo si giunse alla fin doppo tré ore,
ricoperti della polvere dentro un bagno di sudore...".

Non solo in caso di gite, ma nell'uso giornaliero, lo stesso brogliaccio di versi estemporanei parla del biroccio, usato, come si è detto, per normali spostamenti, accennando altresì al pessimo effetto prodotto dallo stato delle strade sui passeggeri del veicolo non molleggiato:

" ... La contessa in un biroccio ricoperto da una tenda
meco andò con il canonico ma alla fin di tal faccenda
credea ogn'un' d'aver rimossi o slogati tutti gl'ossi...".

Comunque, di norma, trionfava lo sfarzo delle uscite in carrozza di cui la "trottata" giornaliera nella Piazza grande - poi dopo l'apertura, a fine '700, della prospettiva sul mare, fino oltre la Porta Pia - rappresentava la più evidente esibizione consuetudinaria di una "vanity fair" in cui competevano, con malcelata emulazione, la bellezza degli equipaggi e l'eleganza dei passeggeri.
L'attento cronista Albertini, ancora una volta, offre un quadro appieno corrispondente del ruolo della carrozza in occasione di cerimonie pubbliche solenni, come all'arrivo in Ancona di Pio VII: " ... Preceduta intanto dai foriere delle corazze, dai due battistrada e mons. crocifero a cavallo con la croce inalberata, prosegui ti suo cammino la muca a sei cavalli in cui era Sua Santità con il solo em.mo vescovo, e veniva seguitata da airre tré mute, una del medesimo signore cardinale vescovo-, altra di questo mons. governatore, ed altra del sig. governatore delle armi ... e dietro di esse le tré carrozze a quattro luoghi dove erano i nove deputati del collegio vestiti tutti da città...".
Dalla descrizione dei veicoli, dalle dimensioni non certo modeste, commisurate alla strettezza delle vie, si può facilmente arguire di quanta perizia nella guida, prontezza di riflessi e forza fisica abbisognasse il cocchiere. Va citato a tal proposito il sincronismo indispensabile per una corretta partenza che, necessariamente, doveva avvenire con mossa unisona di tutti i cavalli e con strappo dolce ma deciso, il così detto "stacco", tale da permettere l'awio della carrozza senza brusche scosse o pericolosi contraccolpi.
A volte era però lo stesso signore ad impugnare le redini, per recarsi a passeggiare ed anche per raggiungere le possidenze più prossime alla città. Si usava in tal caso il "calesse", generalmente privo di copertura o, con al massimo, una cappotta di tela leggera od un parasole in seta cerata. Il calesse aveva ruote alte e, sul retro, un minuscolo sedile per l'immancabile palafreniere: un esemplare particolarmenre elegante è registrato tra le carte dei Palunci: "un calesse con carro verniciato verde, cassa foderata di damasco rosso, cuscino di cordoano rosso e spalliere di bavella torchina con suo portastanghe e tirante".
Al calesse si attaccavano di regola due soli cavalli che, stante appunto la sua leggerezza, erano perfettamente in grado di trainarlo anche a velocità sostenuta. Dote precipua dunque di cale veicolo era una maggiore maneggevolezza e minore ingombro della carrozza, tale da renderlo assai usato anche nei normali spostamenti all'interno della città; non di rado anche le dame si cimentavano nella sua guida.

Altro tipo di carrozza leggera di modello inglese, assai usata dal patriziato anconetano, era lo "swimmer" di cui, solo nella rimessa Trionfi, vengono citati nel 1774 diversi esemplari. Anche nell'inventario Palunci viene descritto un modello a cappotta rigida con finestrini muniti dei relativi vetri di chiusura; "uno svimero col carro verniciato cremise, e la cassa pitturata e dorata foderata di felpa gialla co' suoi cuscini e copertore simili, con tré bandinelle di sera verde e quattro cristalli".
Ma è dalla descrizione degli oggetti nella selleria, o "sellarja" per seguire la dizione originale, che si conferma ulteriormente la magnificenza degli equipaggi nel XVII e XVIII secolo.
Continuando a servirsi dell'inventario degli accessori di scuderia della famiglia Palunci, le principali bardature da pariglia assommano a sei e possono dare valida idea dell'eleganza della fattura e delle guarnizioni decorative: "un paro di finimenti nobili co' suoi metalli dorati, sue testiere compagne trapuntate bianche con sue guide e setarJa turchina". E chiaro che la muta in questione è di gala, ma anche le bardature di uso comune non hanno minor consistenza, abbondando le dorature e le decorazioni più svariate, come risulta dalla seguente descrizione: "un paro di finimenti di corame con testiere compagne il turco guarnito da metallo dorato, con sue guide e setarja verde".
In altri, di minor pregio, l'ottone sostituisce il bronzo dorato ed in questo caso le nappe di seta sono di coler giallo- La bardatura per il tiro a sei è in cuoio nero ed è composta, oltre che dalle redini, anche dalla sella del postiglione il quale cavalcava sulla pariglia di testa per coadiuvare il cocchiere nella non facile guida di simile attacco.
Nella stanza della selleria, in appositi credenzoni di abete, sono allineati i morsi di diversa fattura, Ìn ferro od in metallo argentato, le fruste guarnite di fiocchi in cotone dai colori sgargianti, fondine per pistole da arcione in cuoio nero filettato di rosso, briglie e piume da testiera a non finire. Un solo esemplare di sella, e per giunta anche vecchia, con staffe di ferro, testimonia un cerro disinteresse della famiglia Palunci per l'equitazione. Tra gli svariati oggetti componenti la selleria, non manca tra l'altro "un paro di stivali a bocca,
alla corriera". La figura del corriere richiede una sia pur breve illustrazione, stante la non lieve importanza da esso assunta per gli svariati compiti che di volta in volta gli venivano affidati. Ogni casata di una qualche importanza aveva tale domestico, le cui mansioni originarie si svolgevano nell'ambito dei cavalli e della scuderia.

Dori non comuni, che gli erano richieste, erano sperimentata perizia nel cavalcare e, soprattutto, segretezza a tutta prova e fedeltà incondizionata; a lui infatti erano affidati non soltanto i plichi che, per riservatezza, non si volevano spedire attraverso la posta, ma anche incarichi che richiedevano particolari facoltà, quali ambasciare verbali riservate. Nel caso dei Palunci, dati i loro vasti rapporti con il mondo degli affari di allora e le conseguenti esigenze di rapide notizie commerciali e sui mercati, tale servizio era senz'altro di primaria importanza. Al corriere era inoltre affidata, in caso di viaggio del proprio padrone, l'organizzazione logistica dell'itinerario, a cui provvedeva precedendo la carrozza e fissando i cambi dei cavalli di posta, riservando le stanze nelle locande e curando che tutto procedesse per il meglio. Cosa certo non facile data la pessima viabilità delle strade specie nei mesi invernali e la difficoltà, a volte, di reperire cavalcature adeguare. Un mestiere dunque assai rude poiché ne le intemperie ne ostacolo alcuno dovevano ritardare la marcia ed il compimento di queste delicate incombenze.
Con l'avvento degli usi fastosi del XVIII secolo, pur mantenendo le sue speciali qualifiche, il corriere diviene anche elemento di coreografica e sfarzosa grandezza al seguito del proprio padrone. Da un inventario del 1767 riguardante gli oggetti consegnati a un tipico prelato mondano quale era mons. Ottavio Ferretti, nato ed allevato nel Palazzo Palunci, si ha la descrizione completa del costume indossato dal suo personale corriere, con relativo equipaggiamento, e precisamente: "una sella alla corriera con sua guarnizione - un paro di stivali alla corriera - una briglia alla corriera con suoi sonagli d'ottone - un frustone per il corriere - un corpetto di panno color di pelle guarnito d'argento servibile per il corriere - un par di calzoni di pelle gialla servibili per il corriere - un corpetto senza maniche, di panno verde, servibile per il corriere -.
Anche il corriere dunque, come si usava per Ì servitori di sala ed i palafrenieri, aveva una particolare livrea la cui eleganza era in diretto rapporto con la grandezza della casata a cui apparteneva. In particolare sono da segnalare gli stivali, fatti di grosso cuoio rigido, non pieghevoli, usaci esclusivamente per cavalcare, giacché non consentivano di muovere un passo; in genere avevano risvolte a rovescio di colore vivace. Le briglie, di fattura dissimile dalle altre, erano di misura più lunga ed il modo di impugnarle, lasciando pendere da un lato la parte eccedente, veniva chiamato "alla corriera". Nella selleria si attuavano anche adattamene! e riparazioni: infatti in casa Troili, tra la fine del '600 e i primi anni del '700, si usa una "morsa da sellare", utensile indispensabile per lavorare alle numerosissime selle in uso in quella famiglia, di cui si riportano nella accurata ricognizione dei periti che redigono un inventario, verso il 1729, diversi tipi: "una sella da cavalcare con valdrappa di scarlatto; sue mostre alle fonde parimenti di scarlatto, guarnita di gallone d'oro e un paro di pistole con focile alla bresciana"19. Un'altra sella ha la gualdrappa inpanno bianco e nelle fonde un paio di pistole con analogo "focile", anch'esso alla bresciana, assieme ad accessori meno sfarzosi e di uso quotidiano per cavalcare.
Ma in definitiva il centro di questo piccolo mondo affidato al cocchiere, che finisce con esser anche l'indispensabile nucleo di tutte le incombenze e servizi legati alla locomozione, rimane la scuderia, cioè in una parola il cavallo.

Francesco Ferretti traccia un avvincente quadro di quello che, nell'Ancona cinquecentesca, rappresentava il generoso animale che, fin dal Medio Evo, costituiva completamento Ìnscindibile del "cavaliere", cioè il nobile, poi il gentiluomo, cosi appunto distinto dagli appartenenti a tutti gli altri ceti. Pur lamentando il Ferretti che nel tempo presente, cioè quando egli scrive, nella seconda metà del '500, a causa delle guerre col turco fossero quasi del tutto cessate le forniture dei bellissimi puledri arabi e turcheschi, vanto delle scuderie cittadine, ciò nonostante, sempre secondo le sue affermazioni, era ancora possibile vedere "granosi corridori" montati dai giovani cavallerizzi anconitani. A quanto egli afferma, fiorente era stato in passato il mercato di razze equine importate dall'Oriente, di cui non solo in città si avevano le stalle piene, ma che richiamavano in gran numero mercanti ed amatori da ogni parte d'Italia, "...questa città godeva - dice sempre lo scrittore - del bellissimo et abbondante concorso di cavalli turchi e di corvari, delli quali se ne serviva la maggior parte d'Italia, senza che d'altra città aguagliata, non ch'avanzata; la qual cosa è pur stata a nostri tempi et in abondanza tale che non ne mancavano del continuo et per lomeno diece stalle piene... ".
E questo indubbiamente un aspetto completamente sconosciuto del commercio anconitano nel '500, quello cioè che faceva praticamente della città un emporio di smistamento degli equini appartenenti alle più pregiate razze provenienti via mare dal mondo orientale. Secondo quanto riferito dal Ferretti si trattava non già di un fatto sporadico o temporaneo, ma di un ben affermato traffico il cui non lieve peso economico doveva largamente contribuire al movimento commerciale anconitano.
Ma la preziosa fonte d'informazione fornita dall'attento osservatore, a cui del resto tanto ampiamente già si è attinto, fornisce ulteriori ed avvincenti particolari, sempre nel campo dell'equitazione. Era uso infatti degli anconitani che si dedicavano con passione a questo nobile svago, che oltre a costituire un piacevole diporto rappresentava, specie per i cavalieri e gentiluomini, un indispensabile esercizio per la carriera delle armi, recarsi il mattino a cavalcare lungo la strada Pia: "et ogni mattina in strada Pia, luogo amenissimo et commodo, si vedevano spettaculi di cavalcatori che mostravano esser cicando con trotti, galoppi e velocissime trite carriere, legiadri possenti et bellissimi cavalli...". La descrizione del Ferretti continua, comprendendo una vivace rappresentazione di quella che era la fiera dei cavalli in Ancona, "martacini destrissimi" cioè acrobati a cavallo, "ben ordinare e artificiose moresche" le evoluzioni alla berbera dei destrieri, il tutto reso più suggestivo dalle livree assortite e dai "ricchi istravaganti habiri" dei Greci, Arabi, Turchi, Mori, Armeni, Ungari, Polacchi, Boemi, nonché "molte altre sorte di vaghissime fantasticherie oltramarine".

Tra gli inventari di scuderie cinquecentesche, in quello relativo ad un altro ramo della casata Ferretti, che abitava il palazzo attiguo alla chiesa di San Domenico, dall'elenco degli animali posseduti si ricava una gustosa notizia sui sistemi di trasporto del tempo- Infatti, nelle stanze del palazzo, tra gli altri di grossa taglia, sono annotati: "dui cavallini piccinini uno bianco e l'altro leandro... due selle per detti cavallini con sui fornimenti, una nuova e l'altra usata assai. Due briglie per i sottoscritti cavallini...". Questi cavalli di minuscola taglia, simili al ben noto pony inglese, venivano in genere usati per brevi tragitti all'interno della città. Senza staffe e solamente con sella e briglie, il cavaliere si teneva in arcione con le gambe praticamente abbandonate lungo Ì fianchi della cavalcatura, quel tanto che bastava a non toccare il suolo. Come è noto, specie in occasione di piogge e maltempo, le strade cittadine, prive di lastricato, erano colme di fango e, stante anche l'igiene alquanto sommaria, di lordure e detriti. Con questo sistema si evitava di insudiciarsi e di usare la ben più impegnativa carrozza. Come è riportato da molti memorialisti dell'epoca, anche in Francia e specie a Parigi si faceva, a tale scopo, grande uso di questo minuscolo cavallo, che veniva chiamato "bidet".
Trascorso questo tempo di splendore, nel XVII secolo, almeno a quanto si può desumere dalla documentazione rimasta, scade senz'altro il livello qualitativo dei cavalli presenti nelle scuderie cittadine. La stima media, fissata prò capite, per ogni cavalcatura, è di circa 25 scudi, il che fa ovviamente ritenere non si trattasse di purosangue. Forse, almeno in questo periodo, i cavalli da carrozza provenivano precipuamente da allevamenti locali i quali premiavano alcune qualità basilari, ad esempio la robustezza e la resistenza degli esemplari, a tutto discapito di una elegante apparenza e di dori quali la velocità e la destrezza- Potrebbe collegarsi, tale situazione, al decadere dell'uso di cavalcare in sella, soppiantato dal viaggiare in carrozza. Anche questo veicolo presentava i suoi rischi- Infatti nei tratti di salita più ripida Ì passeggeri spesso erano costretti a scendere per non affaticare eccessivamente gli attacchi. Andando appunto a piedi presso la propria carrozza, si poteva incorrere, così come i cavalieri in sella, nelle conseguenze dell'imbizzarrirsi dei cavalli. Come è testimoniato dall'incidente di cui si lamenta nel suo diario Lorenzo Ferretti: "A di 18 febbraio 1686 ricordo come in detto giorno mi succedette la disgrazia che un cavallo della carrozza del marchese Maculani, cochiero Paolo Brigniocola, mi diede una coppia di calci nel fianco destro, liberandomi lo stomaco con il voltarmi, e questo fu sotto la costa dell'Angelo nel occasione che andavo servendo mons. Grimaldi governatore all'incontro del cardinal Ginetti si che sono stato in pericolo di vita con la frattura di una costa che molto mi ha farro penare...".

Le consistenze degli allevamenti di bestiame incrementati dai proprietari anconitani nei fondi del circondario enumerano rilevanti quantitativi delle razze equine. Nei fondi dei Palunci, sia di Numana che di Montacuto, risultano, ad esempio, tra il XVII e il XVIII secolo, nell'insieme di cavalle fattrici e puledri, trentadue capi. D'altronde lo stesso diario di Nicolo Palunci conferma che ci si riforniva in detta epoca preferibilmente da allevatori marchigiani: "7 dicembre 1700: di martedì doppo pranzo si cambiò il cavallo bianco grosso da carrozza di mano dritta, vecchio ch'aveva 18 anni incirca con un poliedro, Adi 22 marzo di martedì sera 1701 verso un'hora di notte questo sopradetto cavallo poliedro Leardo fu aperto et abrugiato; si cambiò con un poliedro baio scuro ch'era del Migliorati di Macerata con dargli d'aggiunta scudi 25, d'anni 5 non finiti e si chiama Marchese. Adì 2 aprile di venerdì 1701 si comprò un altro poliedro baio scuro compagno al sopradetto, nostrale dello Staro d'Orbino chiamato Capitano d'anni 5 da finire a maggio prossimo, pagato scudi 25 e di più dategli il suddetto cavallo vecchio bianco chiamato Bizzarro d'anni 10".
La situazione muta radicalmente nel pieno del XVIII secolo. Con il lusso giunto all'apogeo e con una conseguente richiesta sempre più raffinatamente esigente, anche riguardo alle cavalcature si awerre la necessità di possedere esemplari della massima perfezione ed eleganza, caratteristiche queste non certo congeniali all'offerta locale. Come sempre, dalle carte familiari che registrano fedelmente questa tendenza, è possibile risalire al maturare e all'affermarsi anche sul piano economico della nuova realtà in tale campo. Scrive infatti Corrado Ferretti nel suo libro di conti: "Adì ere settembre 1767: per la compra d'un paro di cavalli zuizzeri [sic} d'anni l'uno tré l'altro di quattro fu pagato al mercante scudi 205.
L'acquisto di questa fastosa pariglia, come si rileva da un interessante epistolario tra Ottavia Ferretti Montecuccoli e la sorella Maria, andata sposa al conte Annibale Simonetti di Osimo il primo settembre 1763, fu occasione di una memorabile guerricciola familiare tra la giovane ed ambiziosa Ottavia e l'anziano suocero, il cavaliere Corrado Ferretti. Questi infatti si dimostrava riottoso alla spesa ed il convincerlo ad aprire la borsa non fu cosa da poco. "A proposito dei cavalli - scrive OttavÌa alla sorella - questo benedetto vecchio finirà per farmi uscire di senno ..." e per rimuoverlo dalla ostinata rigidezza si interpongono da pacieri Annibale Simonetti e la marchesa Benincasa, amica da sempre dell'anziano patrizio25. Incanto da Modena il conte Montecuccoli, padre di Ottavia, fulmina con lettere colme di aristocratico disappunto nel constatare come i cavalli esisrenci nell'antica scuderia dei Palunci stano al di sotto di quelli dovuti al rango della propria figlia Octavia. Per farla breve, la lotta si protrasse per diversi mesi e si concluse, come si è visto, con la capitolazione del cavalier Corrado di cui si da trionfante notizia da parte di Otravia alla sorella Maria nell'aprile del 1767, con apposita missiva in cui è detto che i cavalli vennero inviati dalla Romagna.

Ancora, nello stesso periodo, nelle scuderie dei magnate anconitano Francesco Trionfi sono compresi "sei cavalli che compongono la muta... valutati scudi 340". E merita di essere ricordato il giro a sei del commendatore Antonio Camerata, di cosi imponente bellezza da attirare addirittura lo sguardo ammirato del Pontefice Pio VI in visita ad Ancona nel 1782. Venuti a conoscenza del prossimo arrivo del papa da Loreto, gli Anziani decisero di andare a riceverlo a Camerano, ma fu impossibile reperire i cavalli necessari poiché erano stati già tutti in precedenza prenotati- Dice Camillo Albertini: "... il suddetto commendatore Camerata si determinò piuttosto che fare sfigurare la città e la rappresentanza medesima, di servirsi della propria carrozza con ciro a sei cavalli della propria stalla. Detta muta era decorosamente montata si a livree di gala, che ad altri ornamenti decenti alla medesima carrozza ed ai cavalli stessi... Egli il sommo pontefice dato d'occhio alla carrozza con muta a sei cavalli ch'era ferma poco distante dal sito in cui smontar dovea, domandò immantinenti di chi era, e gli fu risposto essere del sig. commendatore Camerata, il quale, intesosi nominare, genuflesso con gli altri cavaglieri ambasciatori suoi compagni si avvanzò alla portiera della carrozza del papa... e scendendo la Santita Sua, consegnò il bastone a detto signore Camerata che lo servi di braccio..".
Invero, tra le numerose razze equine italiane ben definite da particolari caratteristiche della componente somatica, quali ad esempio tra le più rinomate nei secoli passati si possono citare quella piemontese della Venaria Reale, la lombarda della Lomellina a Manrova, la ferrarese, la toscana delle Maremme, la napoletana ed altre ancora, nulla risulta circa una particolare razza locale marchigiana.
Negli Stati Pontifici dominava incontrastata la cosi detta "razza romana" il cui centro di produzione era costituito dalle tenute principesche nel Maccarese e nel vasto comprensorio della campagna attorno alla capitale; caratteristiche principali di tali soggetti erano robustezza e resistenza a tutta prova, groppa lunga, estremità muscolose ed asciutte. Unica nota di demerito era costituita dalla testa alquanto voluminosa rispetto ai canoni estetici, ormai fermamente stabiliti, dell'arabo e del puro sangue inglese.
È indubbio che fattrici e stalloni di tale specie siano stati introdotti nelle Marche allo scopo di affinare e migliorare la razza già esistente e di preferenza, come si è accennato, direttamente allevata presso le colonie dei fondi rustici facenti parte del patrimonio familiare.
Circa un particolare interesse per il miglioramento delle razze esistenti in loco. è giusto riportare un brano di lettera inviata al conte Francesco Cresci Antiqui dal famoso argentiere Valadier, il quale era stato incaricato dal patrizio anconitano dell'acquisto di alcune cavalle da razza in Roma: "Roma 12 aprile 1800... Delle sei o quattro cavalle non posso ancora darle preciso riscontro perché quelli tali liberatori passati [si allude all'esercito francese], oltre l'averci spogliato di tutto hanno ancora rovinato le razze migliori, e però si scarseggia molto di tali generi e la casa Borghese non ha più razza nobile, la casa Chigi lo stesso e li Mercanti di Campagna sono ancor loro privi di cavalle buone. Da tanto con difetti si trovano, ma questa non mi prendo nepopur la pena di offrirgliele perché farei triste figura...".

 

NOTE:
(vengono omesse, come sempre in questo sito, per motivi di spazio NDR)

 

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