Associazione Bichi Reina Leopardi Dittajuti

DOMENICO SILVERJ - GUERRIERI

e la passione per il melodramma

di Andrea Carradori

Domenico Sìlverj - Guerrieri nacque a Tolentino il 31 Ottobre 1818 da nobile e ricca famiglia che aveva acquisito il titolo comitale nel 1778 da Ferdinando II Duca di Parma, e che le sarà poi confermato dalla monarchia sabauda il 12 Settembre 1899 dopo la conquista dello Stato Pontifìcio.
In tutte le partiture si trova sempre il titolo di conte di cui si è sempre fregiato con orgoglio.
La famiglia, di nuova aggregazione aristocratica rispetto ad altre ben più antiche, si era anche premunita di aggiungere al cognome Silverj quello di Guerrieri, di origine medioevale, aggregata da sempre al patriziato tolentinate. che era confluita nei Silverj lasciando anche, come eredità, una parte dell'attuale palazzo . Questo doppio cognome, tuttavia, non venne mai riconosciuto ufficialmente nelle pubblicazioni araldiche sia prima che dopo la cosiddetta unità nazionale.
Domenico aveva iniziato a studiare musica quando era allievo del prestigioso Collegio Campana di Osimo quando incominciò a suonare il violoncello, suo strumento preferito anche nelle successive composizioni da camera.
Fu poi allievo del Maestro Astolfì a Roma e si avviò allo studio dell'armonia e del contrappunto.
Domenico Silverj- Guerrieri, guardia nobile pontifìcia, dal 1836 per volere della Famiglia che lo staccò dagli studi musicali, ma anche "ardente" difensore della Repubblica Romana nel 1849, dovette non poco avere se non altro dei rimorsi interiori per tale scelta diciamo cosi poco coerente.
D'altronde certi atteggiamenti nei confronti del cosiddetto risorgimento italiano possono inquadrarsi negli ardori giovanili di stampo romantico : l'ideale di una patria diversa da quella tradizionale, sempre vituperata dagli intellettualoidi di allora e dai mass media del tempo, non facevano pensar loro cosa ci fosse effettivamente dietro tali aneliti e cioè un disegno prettamente anticattolico.
Nel primo anno di pontificato di Pio IX . nel 1846, compose la famosa marcia detta delle trombe d'argento perché, subito accettata con entusiasmo dalla corte pontifìcia, veniva suonata dalle trombe nell'alto della cupola michelangiolesca ogni qual volta il Papa entrava pontificalmente in San Pietro.
Questa consuetudine durò praticamente fino ai nostri giorni. L'unica volta che ci è stato dato occasione di udirla fu in occasione della chiusura della Porta Santa da parte di Giovanni Paolo II nel 1984 eseguita da un complesso di trombe nell'atrio della Basilica vaticana.
La marcia, in Mi bemolle maggiore, è lenta e ieratica e con armonie carezzevoli, spesso con una diminuzione di semitoni nel sesto grado, ma è allo stesso tempo solenne e grave.
Però lo stile di lenta gravità sembra presagire il carattere di agnello sacrificale quale fu appunto il Pontefice più amato ed odiato nella storia della Chiesa Pio IX.
Le altre composizioni di Silverj spaziano fra il sacro ed il profano:una Messa Solenne, un Miserere, lo Stabat Mater, le Sette Parole di Gesù sulla Croce, seguito con particolare plauso al Teatro dell'Aquila a Fermo, ed un'altra opera lirica : Mercede di Aulnay, inedita, ed un numero svariato di pregevoli pezzi, romanze da salotto, per canto e pianoforte o per strumenti e pianoforte.
Non voglio citare i titoli delle romanze, anche scritte in lingua francese, che ho esaminato e che sono conservate alla Biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata, quale fondo musicale della disciolta Società Silverj di cui parlerò più avanti, esse sono state stampate anche da prestigiose Case musicali : Ricordi di Milano, Lapini di Firenze. Lorenzi di Firenze, Breitkopf e Hartel di Lipsia.
Dalle dediche delle romanze da camera possiamo notare anche come fossero i salotti e le frequentazioni degli ambienti aristocratici anche dopo la cosiddetta unità nazionale , tutto secondo il celebre detto tratto dal Gattopardo: Bisogna che tutto cambi perché ogni cosa rimanga immutata.
Certamente l'indole aristocraticamente riservata del nostro avrà influito nel non ricercare quegli effetti di massa corale pure tanto cari ai suoi colleghi compositori d'opera.
Eppure nel 1886 Silverj istituì a Macerata una Società Corale, di stampo laico, che dopo la sua morte portò in suo onore il suo nome e fu, per molto tempo, fra le più attive della provincia.
Penso che l'iniziativa del Coro, di carattere lirico, in un ambiente, allora, fortemente cattolico fosse uno dei segni dei tempi : anche la musica non era più appannaggio esclusivo della chiesa.
Per i suoi meriti artistici e politici Domenico Silverj venne nominato Socio Decano dell'Accademia di Santa Cecilia a Roma.
Per lungo tempo fu Sindaco di Tolentino e per 40 anni consigliere comunale.
Il già citato Roberto Massi Gentiloni Silverj, che è un vero amante delle tradizioni cittadine, e che conserva il pianoforte ed altri cimeli del bisnonno, ama ripetere che il suo avo è stato l'ultimo gonfaloniere pontifìcio ed il primo sindaco sabaudo di Tolentino.
Avendo Domenico avuto dalla moglie Teresa dei Marchesi Pelagallo, Patrizia di Fermo, tré figlie, volle che il suo cognome, e la sua eredità, fossero perpetuate unendo al cognome del genero, conte Aristide Gentiloni, di antica ed illustre famiglia, discendente dai Gentili di Rovellone di San Severino, il suo, dopo l’approvazione regia che avvenne il 1 Settembre 1874.
Il genero Aristide costruì nel 1881, su proprio studio, una residenza di campagna nel quale l'anziano Domenico amava riposarsi e far musica assieme a degli amici fra i quali Filippo Marchetti di Polverina di Camerino.
Si tratta, in effetti, di un Castello vero e proprio copiato con ogni particolare da altri manieri ben più celebri, ed originali, disseminati in Italia e particolarmente, per quanto riguarda il cortile, dalla Villa Il Bargello di Firenze.
In questo castello si spense il 21 Settembre 1900 Domenico Silverj, improvvisamente, scrissero le cronache, per un eccesso di lavoro.
Di lui i biografi hanno ricordato le doti filantropiche ed i sentimenti umanitari che lo hanno pervaso tutta la vita.
L'opera lirica, con i suoi effetti scenografici, con un'efficace gestualità dei protagonisti, la dovizia di costumi, sicuramente di grande effetto, le melodie carezzevoli, è facile da capire e di essere amata da tutti.
Proprio di questo genere, così variegato e ricco, del melodramma fu ammiratore quello spirito inquietamente romantico che fu il tolentinate Domenico Silverj - Guerrieri. Volendo darsi alla produzione teatrale volle subito ingenuamente strafare componendo una grande opera, la Giuditta, edita da Francesco Lucca di Milano che fu rappresentata al teatro Bellini di Catania nel 1885 conseguendo un buon successo.
Uno dei discendenti di Domenico, Roberto Massi Gentiloni Silverj possiede alcune lettere di critici musicali e di colleghi del Maestro, in cui si esprime tutta l'ammirazione professionale per la riuscita dell'opera La Giuditta, che era stata da poco rappresentata a Catania.
In casa Gentiloni Silverj ancora di odono i lamenti che la realizzazione della prima de La Giuditta al Teatro di Catania costò all'autore la vendita di alcuni buoni terreni. Un critico musicale di allora, certo Biaggi, scrisse che La Giuditta era il frutto di un maestro e di un artista che "ha infuso nella partitura un costante nobile e dignitoso carattere".
Penso che Silverj abbia avuto senz'altro ispirazione dalle opere tardo romantiche e wagneriane. In un ricorrente cromatismo, che Silverj non si vergogna di proporre in diverse composizioni da camera, penso soprattutto ad una romanza in francese Le desèrt ed anche ad alcune sonate per pianoforte, violoncello ed armonium, la melodia sembra cercare di liberarsi da un peso che la schiaccia.

I cambiamenti musicali nelle Marche

Il secolo XIX aveva portato nella Marca Centrale una proliferazione di Teatri che si aprivano alla timida borghesia cittadina.
Erano da tempo terminati i piccoli teatri concepiti con una mentalità pre-illuministica, alcuni dei quali si possono, ancora, ammirare ne fermano, come quello ad esempio di Penna San Giovanni mentre furono assai più circostritti quelli inseriti nel contesto familiare come nel
Palazzo Margarucci a San Severino, nella Villa Spada Lavini a Montepolesco o nello scomparso palazzo Panfìli a Macerata.
Nei teatri ottocenteschi si professavano le nuove idee e le nuove mode propugnate dalla Rivoluzione detta francese che .anche dopo la restaurazione, non ebbero mai particolari censure da parte dei responsabili dell'ordine pubblico. D'altronde le intitolazioni stesse dei Teatri Condominiali rispecchiano, appieno, l'imperante ideologia dell'epoca tutta permeata su concetti illuministici e liberali.
La quasi totalità della classe nobiliare locale, che, non senza traumi, aveva cercato un fin troppo evidente compromesso con il nuovo corso politico, sia giacobino-napoleonico che sabaudo-liberale (dopo la cosiddetta unità nazionale) al fine di salvare i propri possedimenti, si accorse, direi quasi improvvisamente, della possibilità di essere anche protagonista del palcoscenico.
Si viene così a capovolgere il concetto plurisecolare che gli artisti erano a servizio della nobiltà, rimasta, fino ad allora semplice spettatrice, e di cui solo alcuni esponenti avevano abbracciato tiepidamente l'arte musicale soprattutto come compositori. Lo Monaldo Leopardi, che dovrebbe essere celebrato maggiormente per la sua genialità e la lungimiranza politico-fìlosofica, si era introdotto nel- l'attività teatrale con alcune sue commedie, tanto che i suoi concittadini lo appellarono "Goldoni recanatese". In questo periodo, di confusione politico-istituzionale, non pochi appartenenti alla classe nobiliare decisero di darsi alla musica anche se per scopi prettamente ricreativi.
Allora alcuni nobili incominciarono ad avere un ruolo attivo nella realizzazione di spettacoli pubblici in teatro e per la prima volta, fra i componenti dell'orchestra, ci furono musicisti provenienti da famiglie illustri : Filippo Carradori di Macerata, poi anche Telesforo Carradori, membro dell'Accademia di Santa Cecilia a Roma; mentre autori di scenografìe furono Giuseppe Pallotta di Caldarola e Bonarelli di Ancona.
Si era da poco riscoperto il fascino femminile quale sovrana del palcoscenico e quello, fino ad ora di carattere prettamente nordico, del salotto ed i mitici "castrati", molti dei quali erano della Marca, erano improvvisamente diventati un ricordo. Nei palcoscenici sopravvisse il grande Giovan Battista Velluti (1780-1860), l'ultimo semiviro, ammirato da Rossini, e nelle cantorie rimasero alcuni cantori di qualche superstite cappella musicale che aveva resistito alle ristrettezze generate dalle soppressioni statali.
Dai monasteri soppressi alcune ex monache cacciate nella "strada", dovendo provvedere a sfamarsi, si misero ad insegnare musica e canto alle ragazze di buona famiglia. Non poche ex religiose, nella nostra Provincia, andarono a "servizio" presso delle famiglie facoltose con compiti educativi anche di carattere musicale. Alcune di queste ex claustrali provenivano da conservatori famosi e da città lontane ed erano conosciute per la loro abilità musicale. Nacquero così le prime scuole canore per voci femminili nella nostra terra.
Ci fu allora una grande proliferazione di arie e romanze da camera eseguite sempre più spesso in pomeriggi musicali nei salotti. Questa usanza potrebbe essere interpretata come dettata dai canoni della moda romantica ma anche come un dolce cullarsi, una specie di masturbazione mentale e sentimentale che permetteva di ignorare quanto stava accadendo con cruente cospirazioni attorno ad essi.
Gli spettacoli teatrali venivano programmati dalle rispettive Deputazioni teatrali mentre sempre più importanti diventarono gli impresari teatrali che praticamente si offrirono per rappresentare le opere liriche nei teatri della nostra Regione anche con artisti di chiara fama.
Ogni teatro delle nostre Città, grazie a queste deputazioni, poté vantare stagioni liriche di alta classe anche per la presenza di Artisti di rilievo. Sono stati fatti, soprattutto da quell'attento ed arguto osservatore della vita teatrale marchigiana qual è appunto Alberto Pellegrino, degli interessanti studi sulle opere, sulle operette e sulle commedie rappresentate in questo periodo nei maggiori teatri della provincia di Macerata ed anche sull'organizzazione pratica degli stessi con i costi generali delle stagioni teatrali.
Non possiamo che essere invasi da una profonda ammirazione per quella, che giustamente Alberto Pellegrino definisce "grande festa ...fastosa e popolare" qual è appunto l'opera lirica. Non possiamo non fare una comparazione con i tempi attuali : praticamente tutti i più grandi spettacoli lirici, anche i meno noti che attualmente non vengono più rappresentati, sono stati eseguiti nei palcoscenici dei teatri storici marchigiani!
C'è da rimanere sbalorditi nel leggere le cronache storiche dei teatri delle Marche, anche quelli più piccoli!
Compagnie, anche famose a livello nazionale, hanno soggiornato nelle nostre cittadine per offrire delle opere liriche di altissimo livello.
Naturalmente il famoso campanilismo dei nostri centri ha influito molto sulla scelta dei cartelloni e sulla loro realizzazione: ogni centro voleva avere la propria stagione lirica migliore di quella della Città accanto.
Un poco meno penserei che le idee propugnate nelle opere liriche abbiano trovato dei proseliti nel pubblico marchigiano, fatta eccezione per quegli intellettuali che si erano accostati ai movimenti "progressisti" dell'epoca.


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